ATTRAVERSO UNA MASCHERA IL SE’ COMUNICA NEL MONDO

La maschera rappresenta il Sé universale. Il suo potere fluisce in colui che la porta, senza tuttavia modificarne l’identità. Nella vita, come nel teatro, la maschera è comunicazione di ruoli; ma ha due aperture, per gli occhi…


“Il mondo è un palcoscenico: noi siamo gli attori.” La metafora a tutti nota, può ad alcuni parere scontata. Forse banale. Mentre banale non è. Vi è anzi in essa un aspetto significativo della nostra realtà quotidiana che, per l’essere a tutti comune, appare ancora più importante.

Dietro le quinte…
Attori. Prima delle quinte e del palcoscenico, prima della rappresentazione, c’è il camerino. Dentro il camerino, uno specchio. Lì, in quella superficie di cristallo e argento tenerissimo, si compie la magia: l’attore diviene Lear. E mentre esso, lo specchio, riflette un volto che a poco a poco si riempie di rughe, e si circonda di capelli grigi, da vecchio, lui, l’attore, si prepara al gesto da cui procederà la tragedia: donare il proprio regno alle figlie. Se il rituale di concentrazione e di mascheramento viene rigorosamente osservato, gli spettatori vedranno Lear muoversi davanti a loro, lo udranno parlare, sentiranno nascere e crescere in lui il dolore, l’incredulità e, infine, la follia. Per due ore, in scena, ci sarà lui, Re Lear. In carne e ossa.
Poi, terminata la rappresentazione, nel camerino, lo stesso di prima, nello specchio, lo stesso di prima, le cose andranno alla rovescia: a poco a poco ricomparirà il volto dell’attore. Un uomo sui quaranta, appena stempiato, assillato da una moglie gelosa che non vede di buon occhio le sue lunghe tournée di lavoro.

… e sul palcoscenico della vita
Attori. Noi, nella vita di ogni giorno. Con il nostro baule di mascheramenti: uno per ogni situazione. Il padre, la moglie, il capufficio, l’intellettuale, la signorina di buona famiglia. Maschere. Qualche volta ridicole caricature: un orologio portato sopra un polsino di camicia (destro o sinistro?) non riuscirà a trasformare l’impiegato di banca in l’avvocato.
Maschere. Metafore, certo, a cui condizionati dalla nostra cultura, diamo generalmente valore negativo. “Le maschere”, ci viene detto da più pulpiti, “bisognerebbe togliersele di dosso.” Che civiltà si costituirebbe in tal modo? Orribile, stando a Kerenyi, persino terrificante.
Maschere. Esistevano migliaia di anni fa. Ben prima della nostra cultura, e della sua scala di valori. Allora, ai primordi, la maschera era ben altra cosa. E viveva nella natura libera e selvaggia: straordinario. Certo partecipava anche di culti segreti, misterici, e di magia. Questo fu poi. Comunque, sempre, in ogni luogo della terra e in ogni tempo, costituì un tramite al sacro. Nella maschera c’è il potere: del dio, del demone, dell’animale mitico, delle forze vitali circolanti del mondo; per questo non è da tutti portarla impunemente, senza correre rischi.
Vincoli di spazio impongono restrizioni e scelte, difficili da accettare: l’argomento è interessante, vasto, affascinante. Vivremo insieme solo il momento dell’avvio della ricerca. Ci dovremo accontentare di scorci, di attimi, di intuizioni appena sfiorate. Torneremo indietro nel tempo, per secoli, e anche più, per millenni: sino alle origini della maschera. La rivisiteremo nel teatro greco.
Ritrovando nozioni note, forse scoprendo qualcosa di nuovo. Quasi un gioco. Un po’ strano, forse. “Giocare con uno strumento dei misteri”, dice Kerenyi, “è rimasto sempre un gioco misterioso.”

La maschera
Il termine ‘maschera’ è probabilmente una filiazione dell’arabo maskharah, che significa “caricatura, beffa”. Dunque, la maschera è intesa come l’esagerato risalto di uno o più tratti dell’individuo, a livello fisico o metaforico. Pierrot, eternamente innamorato della luna, ha una grande lacrima disegnata sul viso: la tristezza in persona. Possiamo ritenere che anche lo spagnolo màscara, il francese masque, il tedesco Maske e l’inglese mask abbiano la medesima matrice semantica. Le lingue moderne, a quanto si vede, hanno abbandonato il greco pròsopon, che significava propriamente ‘viso’, da cui ‘viso artificiale, maschera’.
La parola avrebbe meritato miglio destino: ne aveva percorsa di strada, per giungere a noi, nella fertile Etruria, dove era diventata phersu. Veicolata dagli histriones, aveva proseguito il suo cammino sino a giungere a Roma, dove una ulteriore trasformazione l’aveva resa: persona. Nello scorrere dei secoli la parola non subisce più mutamenti: la ritroviamo identica nell’italiano moderno. Lo Zingarelli enuncia: “Persona: uomo in quanto rappresenta una parte in società, ha condizione, stato, ufficio”. Rappresenta una parte: siamo ancora in argomento. Ha condizione, stato, ufficio: per i romani persona era ‘l’individuo giuridico’. Ci siamo allontanati dal teatro e dalle maschere. Torniamo ad esse.
Le maschere possono avere varie forme. Vi sono quelle da indossare sul viso (generalmente fornite di aperture per gli occhi e la bocca: è a queste che ci riferiamo nello scritto); ve ne sono altre da porre sopra o sotto il viso (per lo più senza aperture). Vi sono maschere nate per essere poste sulle pareti, o su pali, o su alberi: pensiamo ai totem, ad esempio, e ai fantocci, antenati dei nostri spaventapasseri.
Coprire, nascondere, impaurire, proteggere sono funzioni secondarie della maschera. La sua funzione principale è quella di ‘unificare trasformando’. Colui che la indossa si trasforma in ciò che essa rappresenta: i due diventano uno. Questo per il significato che la maschera ha di per sé. Anche se non indossata, può rappresentare il dio e assumerne la funzione: la maschera è uno strumento misterico.
Il dio-maschera per eccellenza è Dioniso. Dai cori e dalle danze dei partecipanti alle Dionisie, dai loro visi coperti di mosto, dal sacro caprone (tràgos) che vi interveniva o dagli attori da esso camuffati, traggono origine la tragedia e l’uso delle maschere sceniche.
Il rapporto tra il divino e la maschera è certo. Vecchio quanto il mondo. Prima dell’antropomorfismo e dell’uso culturale, la superficie dell’oggetto che rappresentava la divinità veniva chiamata ‘faccia della divinità’, soprattutto se aveva forma tondeggiante e assimilabile ad una testa. Senza riferimento all’uomo, pare. Lo testimoniano i dischi d’oro e di rame delle civiltà lontane: ne sono stati rinvenuti in Egitto (montati su carretti sacri a rappresentazione del sole dei metalli), in Perù (opera degli Incas).
La maschera dunque ‘è’ il dio, anche se nessuno la indossa. Così la incontravano i romani nell’età imperiale passeggiando per la campagna: posta su un albero, o su un rialto di pietre, talora con altre, in piccoli gruppi. Così la riproducevano nei mosaici delle loro ville, o nei bassorilievi: un modo, allora, di portare dentro la casa “qualcosa della natura libera, un aspetto dell’antico paesaggio stesso”. (Kerenyi)
Il sole e la luna, gli alberi, le pietre delle are, il mosto. Natura, maschera e dio erano tutt’uno, un tempo. Si avverte la presenza di una forza straordinaria: la maschera è una modalità di manifestazione del Sé universale.

Su la maschera… giù la maschera…
La maschera che ci smette sul volto possiede due aperture. Per gli occhi. Gli occhi dell’uomo. La maschera non li copre mai. Solo il sonno o la morte abbassano su di essi un sipario. Con i propri occhi, sempre, senza la possibilità di simulare, l’uomo comunica con Dio, e il Dio con lui.
Gli attori sulla scena. Noi nella vita. Non chiediamo a chi ci sta di fronte di togliersi la maschera. Leggiamola, invece: essa ci dirà di lui, di come vuole apparirci in quel momento.
La maschera non è soltanto copertura, è anche comunicazione, dichiarazione di ruoli. I ruoli appartengono al mondo dell’Io. E se vogliamo comunicare ad un altro livello? La maschera ha due aperture, per gli occhi: essi, specchio dell’anima, parlano il linguaggio del Sé.


RIZA psicosomatica, febbraio 1988
GIU’ LA MASCHERA, Scopri il tuo volto nascosto.
Un ringraziamento a Katia Gusmini, docente di lettere classiche, per l’apporto culturale all’articolo.



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